Da sempre sono una ricercatrice di felicità, non sempre ho cercato nel posto giusto, ma sempre ho cercato e continuo a farlo, penso di concludere la ricerca con la fine della mia vita terrena.
La vita, nella mia giovinezza, mi spingeva a credere che la felicità fosse nelle cose, nelle esperienze belle e vincenti, nel successo, nell’amicizia, nella cultura, nell’intelligenza, nelle relazioni a volte cosificate, insomma in una vita piena di distrazioni(1). Credevo che quel vuoto che sentivo, se lo avessi riempito di belle esperienze sarei stata felice. Ma la vita spesso mi ha spiazzato e lo ha fatto quando mi sono accadute cose fuori dalle mie aspettative. Il male esiste, esiste la sofferenza, la morte, ma io ho sempre pensato che fossero problemi degli altri e non miei. Quando ho preso consapevolezza del fatto che erano anche miei problemi ho avuto paura e sono stata sopraffatta dai miei limiti e dalle circostanze sfavorevoli della vita, dal sentirmi sbagliata; cercavo di risolvere il problema non pensandoci, facendo finta di niente, lasciandomi ingoiare dal buio, dalla paura, dalla tristezza e ripeto, dalle distrazioni.
Ma ad un certo punto mi sono accorta che temendo di soffrire, soffrivo già di ciò che temevo e quindi soffrivo di più. Mi sono accorta che più cercavo di riempire il mio vuoto e più quello diventava grande e ho deciso di non fuggire più dal mio male, dal dolore innocente, dalla sofferenza di persone care, dal quotidiano e mi sono chiesta: che senso ha tutto questo?
Prima di chiedermi che cosa sia la felicità ho dovuto chiedermi che senso ha la mia vita rispetto a ciò che la vita mi ha riservato e ancora mi riserva e mi riserverà. Qualcuno (anche io stessa) aveva bisogno di me e io avevo qualcosa da dare a lui/lei, a me stessa.
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Gibì e Doppiaw di Walter Kostner |
Così ho smesso di pensarmi sbagliata e ho sentito la mia vita significativa, non mi è più importato se tutto mi era contro, se tutto era faticoso, se le mie aspettative erano disattese. Quando ho capito che le fatiche che vivevo ogni giorno erano significative ho scoperto la felicità, la felicità di un senso. Quando ho imparato a guardare dentro le mie fragilità, ad attraversarle, a condividerle, a vedere che in fondo a quel buio non c’era solo un pauroso vuoto, ma uno spazio che potevo abitare, allora ho sperimentato la felicità.
Ho cominciato a fare i giusti investimenti nella mia vita quando ho scelto di smettere di cercare il fare, lo strabiliante, l’eclatante per accogliere e attraversare la sofferenza, mia e altrui, quale unico punto di accesso ad una vita più profonda. Ho sperimentato che la felicità è Qualcuno e non qualcosa. Però ho avuto bisogno di tanto coraggio, come dice Lonergan nel metodo(2), e di un compagno di viaggio che camminasse con me nel mio buio. Mi sono accorta che da sola non potevo vivere certe fatiche, non potevo lottare contro il male, non potevo scendere nelle profondità di me stessa; intravedevo una felicità nascosta nelle mie cose, nelle mie piccole o grandi cose, anche quelle più oscure e non avrei mai potuto affrontarle e vincerle, non avrei saputo come andare avanti da sola, perché non basta la “conversione intellettuale”(3), non basta fare l’analisi e comprenderla, mi serviva l’attraversamento del buio, mi serviva “imparare a dimorare”(4) nella mia debolezza. Troppo spesso sono stata spaventata dalla mia fragilità, sono passata per la negazione, per la rimozione, per la paura, ma questo mi rendeva invisibile, era spaventoso ciò che immaginavo e me ne sentivo schiacciata. Tuttavia dentro di me, nella mia interiorità c’era una forza che premeva e che mi spingeva a farlo quel viaggio, mi “diceva”: la tua salvezza è nell’attraversamento, non avere paura, non temere. Era Dio che attraverso la sua Parola seminata in me faceva germogliare il coraggio. Ho dovuto imparare ad ascoltarmi, ad affrontarmi; per capire la mia vita ho dovuto affrontare la vita, quello che mi portavo dentro e mentre l’affrontavo, riuscivo anche a capirci qualcosa e ad essere felice.
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Gibì e Doppiaw di Walter Kostner |
Il Signore mi ha promesso di aiutarmi nei fatti e ha mantenuto la promessa, ha fatto la strada con me, mi è stato vicino attraverso qualche buon compagno di viaggio. La felicità, per me, è passata attraverso la fiducia e il coraggio di camminare dentro il mio dolore con il Signore. È così che ho scoperto un segreto: non potevo soccorrere da sola la parte più dolorante di me stessa, ma potevo farlo negli altri e con gli altri che sono il luogo dell’incontro e della vicinanza di Dio; io ho sempre cercato disperatamente di essere amata, ma l’unico modo che ho trovato per sentirmi veramente amata è stato quello di amare per prima, quando volevo un abbraccio ho deciso di farlo per prima, ho scelto di fare agli altri ciò che volevo che gli altri facessero a me. Quando rimanevo ostinatamente chiusa e arrabbiata perché mi mancava qualcosa ho cercato di soccorrere questa mia mancanza negli altri; rinunciando a quell'egoismo che mi faceva guardare solo a me stessa ho potuto alzare lo sguardo attorno a me, ho visto che quello che cercavo era esattamente accanto a me e ho trovato la felicità, ho visto “l’essenziale che è invisibile agli occhi”(5), ho attraversato la “violenza inaudita del senso”(6). Adesso mi sento molto felice e non perché la mia vita va sempre bene, la mia fragilità è sempre presente e anche quella degli altri, ma mi mantiene con i piedi per terra, a volte sono ancora al buio, ma lo conosco, mi è amico e non sono più sola nelle mie tenebre. Questa per me è, in sintesi, la felicità: sentire di appartenere a Qualcuno. Da quando ho scoperto questo so cos’è la felicità e tutto il resto va sempre bene. Dio mi guarda con Benevolenza, mi Ama di amore incondizionato, non mi lascia sola se non il tempo necessario per farmi strada e questo per me è felicità. Non si tratta di ragionamenti, di idee o di pensieri, ma di disobbedienza alle mie logiche egoiche che sono matematicamente perfette, ma che hanno come risultato la tristezza. Quando ho disobbedito ai miei ragionamenti mi sono accorta che la vita risponde ai miei desideri perché la vita ha un nome: Cristo, il Cristo presente nel povero che ha bisogno di sentirsi semplicemente amato, toccato, curato, accarezzato, come dice Giovanni: “ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita […], noi lo annunciamo a voi “(1Gv 1,1-2).
Cristo non è un’idea geniale (di idee geniali ne ho sempre tante grazie alla mia creatività, ma non mi cambiano la vita), Cristo o è una persona che posso toccare, guardare, curare, abbracciare oppure non è. Adesso presto servizio ai più poveri tra i poveri, quelli che vivono alle periferie della città, in strada, quelle che nessuno vuole, la mia vita è piena di storie di salvezza, ho imparato a chiedermi quanto Cristo è nascosto in ogni storia per lasciarmi salvare da Lui nascosto nelle storie della mia e altrui vita. L’albeggiare della felicità nella mia vita è arrivata quando ho scoperto “l’amore ai fratelli più forte del rifiuto”(7), e questo nel quotidiano, ogni giorno, ogni attimo, ma quest’alba l’ho aspettata per 60 anni prima di vederla sorgere, solo adesso ne ho piena consapevolezza.
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